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Sciamanesimo

Di vita, sofferenza e morte

di D.

Nell’epoca dell’accanimento terapeutico si è disimparato che a volte la scelta più umana davanti alla sofferenza è porvi fine. Siamo abituatati a farmaci, macchine e tubi che sopperiscano a tutte le funzioni di un organismo vivente, pur di tenere in vita il paziente il più a lungo possibile. Che si parli di una persona o di un animale fa poca differenza, al punto di attribuire sentimenti umani agli animali e animalizzare le persone, ammassandole in reparti stracolmi come si farebbe con dei conigli.
Tenendo in vita qualcuno che la Natura riconosce pronto a morire, che sa di essere pronto a morire e accetta l’abbraccio della Morte, ci si intestardisce con un egoismo di fondo che mette se stessi e la propria paura davanti agli altri, impedendo di empatizzare e provare davvero, sulla propria pelle, la sofferenza altrui. È una delle tante vittorie dell’Ego sull’empatia, e la sconfitta del sentimento di umanità è di per se agghiacciante.

Chi pratica seriamente Sciamanesimo si trova spesso a tu per tu con la Morte. Non si tratta soltanto di ripulire le ossa o le carcasse, tanto dalla putrescenza della carne quanto dalle energie sottili; né di aiutare un fantasma a trapassare più facilmente. Il fulcro è invece un lavoro spirituale condotto con l’archetipo del Mietitore, o della Morte, Madre-Padre dell’Origine e della Fine. Ed è un lavoro che viene condotto, sempre, in modo solitario, perché ognuno è solo davanti alla Morte, e nudo, spogliato di ogni possedimento.
La Morte è un fatto naturale.
Nell’istante stesso in cui nasciamo, le siamo destinati. Per cui non dovrebbe suscitare paura, né disgusto. Forse curiosità, il desiderio di comprenderla e “studiarla” già durante la vita, per non farsi cogliere impreparati dalla sua carezza.
Purtroppo, in un mondo in cui la Spiritualità viene spogliata della sua duplicità (luce-ombra, positivo-negativo, vita-morte, origine-fine, …) per esaltare soltanto uno stucchevole buonismo, camuffato da una patina di “amore incondizionato”, non si generano altro che frustrazioni e paure inespresse, che non vengono affrontate. E la Morte smette di essere un fatto curioso, una condizione incomprensibile per chi è vivo. Diventa, invece, un mostro da cui fuggire, una condanna malevola, uno spettro pronto a divorarci. Eppure, la condizione di precarietà a cui il confronto con la Morte ci costringe, e dal quale usciamo schiacciati, non potendo controllarla in alcun modo, potrebbe davvero essere un motore e una spinta per vivere il presente in modo più pieno e consapevole – e addirittura potrebbe ridare senso a vite soffocate dalla noia ed essere la risposta alla vuotezza percepita dall’uomo dei nostri tempi.
Negandosi il confronto con la Morte, si perde una parte fondamentale della pratica sciamanica, un passaggio che fa crescere ed è in grado di “risvegliarci” alla Vita, rendendoci più vigili e consapevoli.

Se al posto che protrarre la sofferenza di una creatura, dando ascolto al nostro Ego piuttosto che al buonsenso, imparassimo ad aiutare un’anima a morire, e ad agevolare il passaggio, a rendere il distacco dello Spirito dalla Materia più facile, tenendo la mano a chi ne ha bisogno, forse faremmo un salto avanti in termini di “umanità” e saremmo davvero in grado di dare una svolta alla nostra (pessima) condizione sociale.
Forse impareremmo anche a vivere la Natura in modo più completo e unitario. La Morte non è una condanna: è un passaggio, un cambio di condizione e di status. Sono il Cristianesimo e l’Islam (per l’Ebraismo vige un discorso a parte) ad averci instillato il timore della morte attraverso la paura per una punizione che seguirà e sarà commisurata agli errori commessi durante la nostra vita, l’unica esistenza che ci è concessa. L’esaltazione della dannazione eterna è quanto di più innaturale e alieno per chi segue un percorso sciamanico, il quale si fonda su un concetto ben più semplice e immediato: tutto, in Natura, si trasforma, perché la Natura possa continuare a esistere nelle sue molteplici forme.

Pochi giorni fa una delle mie gatte ha partorito dei cuccioli prematuri. Troppo magri, troppo deboli, troppo piccoli. Troppo fragili e inadatti alla vita. Ho scelto di non toglierli dalla cuccia, di non portarli in casa e non allattarli artificialmente. Di lasciare, in sostanza, che la natura facesse il suo corso. Li ho tenuti controllati, però, perché volevo sincerarmi che nella cuccia tutto fosse in ordine.
Ne ho trovato uno moribondo, troppo freddo e agonizzante. La “gattara tipo” lo avrebbe portato in casa, nutrito a forza, costretto ad una vita per cui non era pronto. Anche se la gola non era perfettamente aperta, lo avrebbe fatto visitare da un veterinario perché gli infilasse un sondino in gola. Cosa sarebbe diventato quel gatto? Poco le sarebbe importato, a quella “gattara tipo”, purché nell’immediato il cucciolo sopravvivesse. Poi avrebbe cercato una delle famigerate “adozioni del cuore”.
Non parliamo di una specie in via di estinzione: stiamo parlando di gatti. Ogni vita va rispettata, di certo, ma ancora più che la vita bisogna saper rispettare la Natura. La prima domanda che uno sciamano dovrebbe porsi non è “come posso conservare la vita?”, e neanche “come posso donare la morte?”, ma piuttosto “cosa succederebbe in natura? Come agirebbe la Natura se non ci fosse l’uomo?”. Domande di questo tipo permettono non solo di trovare una direzione nella propria pratica, ma anche di ridefinire il ruolo dell’uomo (e dello sciamano), che può tornare ad essere un custode per la Natura, ma nella piena funzionalità di quel “senso di umanità” dal quale non possiamo distaccarci, in quanto umani.

In questo risiede la ragione per cui ho preso quel piccolino agonizzante fra le mani e ho aiutato il suo Spirito a trapassare, favorendo il distacco dal corpo.
Quanta sofferenza gli ho risparmiato? Minuti? Ore? Quando si soffre, l’agonia si dilata all’infinito. Non è soltanto un sentimento del presente, ma qualcosa che si ripercuote nel futuro, ritardando il momento della morte. Lo ho sottratto a una vita di medicine, tubi, sofferenze e insufficienze. Avrei potuto alimentarlo a forza, senza comunque avere certezza della sua sopravvivenza, e raccontare una bella storia su una “coraggiosa madre di gatti che salva tre gattini precoci”.
Invece mi sono chiesta se non sarebbe stato più amorevole accompagnare dolcemente quello Spirito per liberarlo dal dolore e da quella prigione di carne in cui si trovava, e lasciare che andasse Oltre. La prospettiva di risposta è ben diversa quando si legge una storia dietro a uno schermo e quando ci si trova la sofferenza fra le mani, imprigionata in un corpo scheletrico e sempre più freddo, che rantola per respirare. In quel momento, umanità non è accanimento, ma capacità di mettersi da parte, ignorare il proprio dispiacere, e permettere il rilascio di quella sofferenza per liberare lo Spirito da ciò che lo trattiene.

Non riesco a comprendere, né ad accettare, questa falsa morale che induce all’accanimento terapeutico a tutti i costi, arrivando a fare a pezzi il corpo di un paziente pur di non farlo morire. Lo trovo inadeguato, umanamente parlando, prima di tutto come persona, e poi come praticante di sciamanesimo. Ciò che è destinato alla morte, deve morire. Al massimo, lo si può tenere per mano e accompagnare.
Lo Sciamano ha sempre svolto anche questo compito, quello di porre fine alle sofferenze, di guidare lo Spirito oltre la Materia.
E non solo gli sciamani: nell’Antica Grecia l’eutanasia era una prassi comune, attraverso la somministrazione di decotti di cicuta; l’Italia stessa conosce la figura sarda dell’accabadora, deputata ad assistere il paziente e aiutarlo a morire nel modo più dignitoso e rapido possibile. Ancora una volta i concetti dello sciamanesimo sconfinano in altre religiosità e contesti culturali, perché sono universali e “naturali”, al di là delle specificità che caratterizzano il fenomeno nelle sue varie forme.

Le figure come quella dell’accabadora oggigiorno sarebbero considerate mostruose a dir poco, accusate di essere quelli che vengono definiti “angeli della morte con il complesso di dio”. Tuttavia la loro funzione è ben diversa e non c’entra con il sostituirsi a una qual si voglia “volontà superiore” nel decidere chi vive e chi muore, ma piuttosto agevolare il corso della Natura, quando la Natura ha già deciso, perché una persona possa morire con dignità. Anche questo rimarcare sulla dignità è qualcosa che non è facile da comprendere per chi non ha avuto direttamente a che fare con morti penose o persone “fatte a pezzi”, alle quali l’orgoglio di essere viene tolto a favore dell’esistere, sia sedandoli con farmaci che li rendono assenti a se stessi, sia mutilandoli emotivamente e fisicamente per assicurare quelle funzioni primarie che tengono in vita la Materia, ma distruggono lo Spirito. Non c’è dignità nel morire in questo modo, né nel farlo nel letto di un ospedale, o in casa propria, fra le proprie feci e il vomito, fra rantoli soffocati perché non si respira e attaccati a una macchina che non è più in grado di far gonfiare i polmoni, e neanche fra il dolore di un arto fantasma. E non c’è dignità neanche in chi, a questi punti, si accanisce a tenere in vita qualcuno. Amore, a volte, è concedere la Morte, accettare la dipartita, salutare con affetto e lasciare che gli occhi di qualcuno si chiudano sulla sofferenza.

C’è qualcosa di morboso e consumistico nell’accanimento terapeutico, nella conservazione della vita a tutti i costi. C’è qualcosa di innaturale dietro a questa falsa pietà: è l’Ego dell’essere umano, che gioca a fare Dio – ma al contrario, prolungando innaturalmente una vita. Questo non riguarda il trattare una malattia curabile o l’usare presidi medici che possano ridare una buona qualità di vita. Quello che attacco è il degrado dell’essere umano come individuo, tenuto in vita a ogni costo, perché la coscienza di qualcun altro sia pulita. Se tagliare una gamba a qualcuno lo fa sopravvivere, non compromette la sua qualità di vita e non lo distrugge nella mente, quella gamba è da tagliare. Ma se tagliarla significa distruggere il suo Spirito, forse è il caso di lasciar morire quella persona e starle vicino, fino all’ultimo, con affetto e con dedizione, ma lasciando che le cose facciano il loro corso. Dire che una persona malata o in condizioni di pericolo della propria vita non è in grado di rendersi conto e prendere una decisione da sola è soltanto un modo di frapporre le proprie paure fra sé e qualcun altro. In realtà equivale a dire “io ho paura di vederlo morire, quindi io decido che lui non è in grado di scegliere, e scelgo io, al posto suo, per essere pulito e non dover affrontare la sua decisione”. È un meccanismo perverso, ma coerente con la codardia di una società adagiata nella sua bambagia, in cui ognuno di noi è diventato un numero, prima che un essere vivente.

La Natura non è qualcosa di costante o eterno. Non c’è eterna conservazione, se non della Natura stessa, le cui parti sono però in continuo mutamento. Tutto varia, tutto si consuma e tutto diventa altro, rinnovandosi in un’alternanza caratterizzata da momenti di Vita e momenti di Morte.
Lo Sciamano, e chi pratica sciamanesimo, non può esimersi dal vivere e agire in armonia con questa legge. La Morte è parte del cambiamento, va riconosciuta come tale. Non è la fine di tutto, non un andarsene, ma è anzi il tornare nel ciclo infinito della Natura sotto altre forme, con forza rinnovata.
Staccare lo Spirito dalla Materia è un’esperienza che segna e fa crescere. Qualcosa si stacca anche nella mente di chi esegue una cesura del genere: ci si rende conto che si ha il potere di togliere qualcosa, ma anche la capacità mentale di capire che se lo si fa seguendo il corso della Natura non si sta attuando un sopruso, ma operando in armonia e comunione con un ciclo più grande dell’Uomo e del mondo stesso.

In chiusura a questo articolo, troverete due foto. Due dei tre gattini morti partoriti dalla mia gatta.
Quello tigrato è deceduto da solo, senza il mio aiuto. Il suo corpo emanava gelo, angoscia, tristezza e paura. Nonostante il suo Spirito non fosse più lì, l’impressione del suo sconforto era chiara. Avrebbe probabilmente preferito morire in modo diverso, al caldo, accompagnato nel passaggio, non esiliato dalle gatte in un angolo della cesta, soffocato e schiacciato dai suoi fratelli più grandi. Aveva una scapola dislocata e la spina dorsale spezzata: basta questo per capire come il suo corpo è stato trattato. Non c’è “sbagliato” in questo, è solo il corso della Natura. I gatti agiscono in base alla loro indole e di ciò non li si può incolpare. Ma se si può intervenire, e portare quel senso di umanità di cui noi siamo dotati, e al seguito del quale possono arrivare maggiore dolcezza e gentilezza, perché non farlo?
Il secondo gattino, quello nero, è quello il cui Spirito ho staccato dal corpo. Penso che la condizione della morte sia evidente dalla foto. Più che morto, pare addormentato. Nonostante il corpo si sia raffreddato immediatamente, non emanava la stessa sensazione di gelo. Il fatto che la sofferenza non si fosse protratta, ha tolto la patina di angoscia, dando invece una serena quiete. È stato tenuto in mano, accarezzato, cullato e lasciato andare dolcemente, laddove l’altro si è trovato spezzato.

Se io fossi un gattino, in quelle condizioni, incapace di alimentarmi e di trarre calore, cosa vorrei? Come vorrei sentirmi? Vorrei che mi infilassero il cibo in gola a forza, o che ponessero fine alle mie sofferenze adesso, risparmiandomi ore di dolore?

Sono domande che io mi sono posta, e che tutti dovremmo porci, traslandole in altri contesti e su altre persone. È facile, quando la cosa non ci riguarda direttamente, ma se ci immedesimiamo davvero, rispondendo senza ipocrisia e falso buonismo? La gente fa grandi tragedie per un’unghia rotta, per un coltello che scappa sul dito. Vorrebbe morire per un pezzo di vetro nel braccio. Piange e si dispera per poco. Se non fosse costretta, avrebbe davvero la forza di spirito per affrontare un tubo in gola? L’alimentazione forzata? Aghi, bisturi, cateteri? Medicine che ti curano un male e intanto te ne provocano un altro? Oppure sono tutti bravi a giudicare come gli altri vivono (o muoiono), pretendendo di dire cosa è bene e cosa è male, cosa è amore e cosa no, sostituendosi alla cosa più naturale che esista, il morire, quando il corpo cede?

Se io fossi stata quel gattino, avrei preferito delle mani calde ad accompagnarmi negli ultimi istanti, piuttosto che diventare un rifiuto morto all’interno di una cesta in cui la vita continuava a brulicare.

Se io fossi stata quel gattino, avrei preferito la pietà di un essere umano, piuttosto che diventare il puntaspilli di un dottore, che avrebbe svolto con dedizione il proprio lavoro, ma non mi avrebbe salvato in ogni caso, perché il mio corpo era inadatto alla vita.

Se io fossi stata quel gattino, avrei preferito l’affetto di un attimo, piuttosto che la sofferenza di giorni.

E tutto questo non riguarda soltanto gattini precoci, è una metafora che investe ogni aspetto della nostra esistenza. I rapporti che non vengono chiusi, nei quali le persone continuano a trascinarsi soffocandosi a vicenda. Le malattie incurabili per le quali esistono soltanto cure palliative, che prolungano la fine di anni, in condizioni di vita pietose. L’incapacità delle persone di voler bene a qualcuno fino al punto di lasciarlo andare, nonostante sia lo spettro di quello che era, o addirittura non sia più nessuno (basti pensare ai malati di Alzheimer).

E se voi foste quel gattino?

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