Il Culto degli Antenati: una religiosità più antica dell’Animismo?
Fuori dall’ambiente accademico di chi, studiando antropologia, deve per forza conoscere le varie teorie sull’origine del Sacro e della religiosità umana, permane una concezione scolastica che porta innanzitutto a vedere alcune espressioni religiose più primitive e altre più evolute e, grazie al condizionamento di una mentalità ottocentesca dura da sradicare, ad attribuire a queste espressioni un valore in termini morali ed evolutivi.
Ci viene insegnato, come fosse una filastrocca, che l’Animismo è venuto prima di tutti gli altri modi di intendere la religione. Che l’Animismo è espressione religiosa propria della cultura del buon selvaggio: l’essere umano arcaico, pacifico e in comunione con la natura, più simile ad un animale che all’uomo moderno civilizzato, che sarebbe stato dotato di una naturale curiosità verso gli eventi inspiegabili e avrebbe, con la sua ingenuità, creato la religione come forma di consolazione e riconosciuto la scintilla vitale intrinseca in tutte le cose esistenti come uno spirito sovrannaturale.
Non è difficile capire perché il discorso zoppichi già di per sé. Quello del buon selvaggio è ormai fortunatamente riconosciuto come un mito senza attendibilità, e non possiamo affermare in alcun modo che gli animali siano pacifici o che la comunione con la natura implichi un’etica pacifica nei confronti delle altre comunità umane.
Anche l’idea della religione come compensazione al dolore dell’esistenza, consolazione davanti alla tragedia o conforto che permette di accettare il mistero è semplicistica, più frutto di un positivismo che ha promosso una visione scientista incapace di provare meraviglia e mistero, o che a tratti ha sostituito la Scienza alla Religione. (Di questo, parleremo meglio altrove.)
La religione, nella sua accezione più pura, potremmo dire essere un insieme di idee attraverso le quali viene letto il fenomeno dell’esistenza, e dalle quali scaturisce un modo unico e particolare, per ogni cultura e religione, ma anche per ogni singola identità umana, di costruire il proprio concetto di corporeità, trascendenza, sopravvivenza, esistenza, natura, vita, mondo, e via dicendo. Un insieme di idee, dunque, che definiscono l’etica e la morale attraverso le quali l’uomo costruisce se stesso, la sua comunità, il mondo che lo circonda; e che lo porta a interagire in modo peculiare con se stesso, gli altri, il mondo.
Anche per questo, andare alla base del sentimento e del meccanismo che ha portato l’uomo a sviluppare un sentimento religioso, e capire la modalità ancestrale in cui questo sentimento e meccanismo si siano espressi, è un po’ come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina. Non solo bisogna, dal punto di vista accademico, considerare le varie teorie per lo più affiancate l’una all’altra, e non l’una escludente tutte le altre, ma è anche importante comprendere che, in questo grande campo di idee, si possono seguire infinite piste per comprendere lo sviluppo della religiosità umana, pur senza avere torto o ragione. In fondo, si tratta comunque di teorie che non possono in alcun modo essere comprovate con indiscutibile certezza, a meno di non imbarcarsi in un viaggio nel tempo e nello spazio insieme al Dottore (who?).
Solo che alcune teorie, come quella di Taylor per esempio, che vede l’Animismo come religiosità primordiale hanno più fortuna di altre, e si diffondono di più anche al di fuori dell’accademia. E altre restano più silenziose, chiuse entro un ambiente.
In modo provocatorio, potremmo dire che non è un caso se Taylor non fu soltanto il fondatore di quella sorta di “evoluzionismo religioso” che andò di pari passo alle teorie di Darwin, ma anche uno dei punti di riferimento del modo in cui il colonialismo adottò queste teorie evoluzionistiche (relative a vari aspetti della cultura umana) per dichiarare senza ombra di dubbio la supremazia e il primato in termini di “civiltà”, “evoluzione” e “progresso” (qualsiasi cosa queste tre parole significhino da un punto di vista oggettivo e non polarizzato dalla cultura), non tanto (o meglio, non solo) di una “razza” (etnia, dicasi etnia) su un’altra, ma soprattutto del modello sociale dell’Europa colonialista su tutti gli altri. E allora ecco che, in virtù di una presunta maggiore evoluzione delle credenze della società coloniale, con tutto il suo carico di positivismo e disincanto, era giusto – anzi no! – era caritatevole andare a civilizzare i popoli “primitivi” (dicitura che dovrebbe essere universalmente rimossa da qualsiasi testo antropologico).
Senza perderci in ulteriori digressioni su questo, arriviamo al punto per cui questo articolo è stato scritto.
La teoria sull’Animismo come religione ancestrale di Taylor ha avuto fortuna, ed è ormai molto nota. Meno fortuna, e meno notorietà, sono spettate invece alle teorie sulla religione del filosofo inglese Herbert Spencer, coevo di Taylor. Spencer, di fondo, fu un anarchico, del tipo “l’individuo ha il diritto di ignorare lo stato” (cit.)… ma non per questo, oggi, possiamo considerarlo del tutto esente da critiche. Di fatto, forse anche più di Taylor, lo si può considerare promotore di un certo “darwinismo sociale”, dal momento che proprio in Spencer deve essere cercata l’origine dell’idea per la quale la società che sopravvive è quella più adatta a farlo – idea tristemente alla base del razzismo biologico, cioè la credenza per cui una razza umana (etnia, si dice etnia!) sia più evoluta e “degna” di altre alla in virtù di fattori genetici. A scanso di equivoci, Spencer sostenne a più riprese che l’imperalismo europeo stava facendo un favore al mondo, ripulendolo dalle “razze inferiori”.
Quindi, in quest’ottica, devono necessariamente essere lette anche le sue riflessioni riguardanti la religiosità umana, che Spencer vede prima di tutto come un fatto di discendenza. Di fatto, Spencer, in Principles of Sociology, afferma che alla base di tutta la religiosità umana vi fu il terrore per la morte e per i morti, che creò la più atavica di tutte le paure, dalla quale scaturirono le prime visioni di fantasmi, fossero essi illusioni o realtà (dopotutto era agnostico).
Secondo lui, si tratterebbe, in sostanza, di un problema di rapporto fra identità e comunità. (Useremo il termine identità un po’ fuori dal suo significato antropologico e psicologico, perdonateci la leggerezza.)
L’essere umano riconosce l’identità, e con essa l’individualità della singola persona. Ogni identità è regolata e influenzata dagli stimoli e dalla cultura della sua comunità, sotto forma di gerarchie, leggi, norme comportamentali, rituali, simboli, etc.
Ma quando il corpo muore, cosa ne è di quell’identità che in precedenza si esprimeva attraverso la corporeità materiale sostenuta dalla vitalità? Sfugge al controllo della comunità materiale. Va oltre il suo potere. Va oltre il controllo dei vivi. Da qui la paura atavica per la morte, per ciò che sfugge al controllo. Da qui il fatto che l’uomo ha sempre cercato di placare il Morto per mezzo di offerte e sacrifici, a volte estremamente cruenti. Ritualità nelle quali Spencer rivede le prime forme di religiosità umana.
Di certo, possiamo dire che, come molti suoi contemporanei, anche Spencer peccò di eccessiva semplificazione, perché la religione non nasce da una singola credenza e ritualità, ma è ben più pervasiva della società e della cultura per ridursi solo a questo. Però ebbe un’intuizione interessante, questo sì.
È possibile che il problema non fu tanto chiedersi “dove va il Morto?”, quanto “cosa ne è di quell’identità, ora, nei confronti della nostra comunità vivente?” e che il problema percepito come predominante non fosse tanto la necessità di comunicare, con quell’identità defunta, quanto piuttosto assicurarsi che tale identità, sfuggita alle regole comunitarie e fuori dal potere della comunità vivente, non arrecasse danno a chi era rimasto. O che fosse necessario mantenerla integrata nella comunità in qualche modo, per assicurare la coesione della discendenza infinitamente indietro nel tempo, fino alla sua origine, e infinitamente avanti nel tempo, attraverso i vivi.
Dal punto di vista archeologico, è più facile trovare supporto a un antichissimo culto degli Antenati, piuttosto che ad altri culti, più o meno strutturati, rivolti alla Dea Madre, a Spiriti di varia natura o a Divinità più strutturate come aggregazioni di concetti socio-culturali.
È più facile, perché è più facile individuare prove oggettive della cura del corpo del defunto (sepolture in cui sono riconoscibili tracce di ritualizzazione, fra cui per esempio la deposizione di fiori o di un corredo), piuttosto che prove oggettive che comprovino che nello stesso periodo neolitico esistesse una religione comunitaria orientata a “esseri originariamente metafisici” (ricordiamoci che l’identità del morto diventa concettualmente metafisica nel momento del trapasso, ma in precedenza è assolutamente materica perché incorporata).
Di sicuro, la necessità di cura per il defunto non rispose soltanto a fattori igienici, ma serviva anche a dare una direzione all’affetto per il morto e ricostruire, in qualche modo, la comunità privata di quell’individualità. In questo, possiamo dire che il culto degli Antenati non soddisfava soltanto la necessità di controllare ciò che si sottraeva al controllo dei vivi, e neanche soltanto a un fattore di rispetto o terrore per l’incomprensibile divario che separava i vivi dai morti, ma a qualcosa di ben più umano: la necessità di mantenere coesione con coloro che rappresentavano la propria famiglia e i propri affetti, e il colmare il bisogno di una continuità storica che non sospendesse nello spazio e nel tempo, ma che piuttosto ancorasse a un continuum dal principio alla fine.
Ritroviamo in questo tipo di riflessione, portata da Spencer, ma anche da molti altri studiosi, il senso di quello che fu il culto degli Antenati nell’antichità, e di quello che continua ad essere oggi il suo senso. Non soltanto l’esercizio di un potere di comando sull’alterità rappresentata dai defunti, quanto piuttosto l’esercizio di un potere di coesione fra la propria comunità e l’alterità, fra il qui e ora, il passato e il futuro, per la necessità di un sentimento di appartenenza e fame di senso intrinsechi nell’uomo stesso. La venerazione degli Antenati risponde a tutto questo e continua a rispondere a tutto, perché in tutti i culti, trasversalmente, questo culto continua, quasi come se l’esistenza dell’identità di ogni individuo dipendesse in primo luogo dalla sua appartenenza o estraneità a determinati contesti.
Concetto, quello dell’appartenenza attraverso l’estraneità, che non è alieno alla storia delle religioni, poiché, per esempio, la religione ebraica è ritenuta un grandissimo processo di identificazione della comunità attraverso la sottolineatura della propria estraneità alle comunità vicine. E l’identità del popolo ebraico nasce proprio da questa estraneità.
Anche senza ripiegare su monoteismi e periodi così recenti della storia, un altro esempio del processo di appartenenza attraverso la venerazione degli Antenati è la trasfigurazione dei defunti della tribù da “persone venute prima” a eroi civilizzatori, semidei o divinità in senso proprio del termine.
4 commenti
Vincenzo CONTE
Evito le citazioni e attingo dal conosciuto : ritengo che sia nato primo l’uovo che la gallina, altrimenti i cultori della lingua originaria dalla quale la nostra deriva non avrebbero detto “Ab ovo” per riferirsi all’origine delle cose.
Il culto degli antenati non può – a mio avviso – essere precedente all’animismo, per il fatto che l’uomo abbia, prima di ogni altra cosa, identificato la divinità nella natura. Il culto degli antenati credo sia successivo, per molte ragioni indicate nel testo : la prima perché il vivente credeva che nessuno morisse del tutto, e che andasse invece a vivere altrove. Il motivo dal quale il primitivo aveva tratto questa convinzione, era generata dai sogni : durante i sogni il primitivo, mentre dormiva (sinonimo di morte) vedeva l’altro se stesso in azione, In pochi minuti – come freud ci ha spiegato – si può rivivere una vita. Il primitivo quindi pensava che la “sua” morte non sarebbe stata la morte “dell’altro se stesso”. Pertanto, come rappresentato nel testo, il primitivo temeva l’antenato, credendolo da qualche parte ancora vivo. Il testo investe poi la cultura la scienza e il potere, senza chiedersi quale fosse nata prima. Ebbene provo a dire che la cultura nasce per ultima, dopo la conoscenza, la scienza e il potere. Il meccanismo credo sia questo : nell’osservare la natura il primitivo voleva carpire i segreti di Dio : se il giorno sarebbe seguito sempre alla notte ; dove erano andate le nuvole che il giornoi prima oscuravano il cielo ? ; perché Dio aveva minacciato la comunità con “i suoi fulmini ? ; e perché aveva sprigionato il forte vento che minacciava le capanne e gli alberi ? ; e tante altre domande come queste. L’osservazione però qualche risposta gliela dava : alla lunga, senza saper dargli un nome, il primitivo scopriva le prime nozioni scientifiche ; la conoscenza gli dava potere ; e il potere diventava strumento della cultura. Ho dimenticato qualcosa ?
Nexus Arcanum
Non sapremmo dirti se hai dimenticato qualcosa, ma di sicuro possiamo dirti che hai detto molto e in molti modi – espliciti e non.
“Nec gemino bellum Troianum orditur ab ouo”, da cui deriva “ab ovo” è riferito all’origine della guerra di Troia, e poi usata come locuzione per indicare l’origine dei fatti, ma non ci sovviene dove la stessa venga usata per indicare che, nella dialettica del paradosso uovo-gallina, si indichi per nato prima l’uovo o dove questa locuzione sia usata per indicare un’origine “metafisica”. Ci pare un po’ tirato come commento in merito alla nostra frase nel testo.
Comunque sia, la tua posizione è sicuramente condividisibile, ma ciò che vi fu all’origine del pensiero religioso umano è abbastanza controverso e inconoscibile – o per lo meno ancora in fase di studio teorico, dal momento che più che estrapolazioni non è possibile fare. Ragion per cui ci sembra superfluo contestare la tesi di cui sei latore.
Se non per un punto, ma è più una sottolineatura che una contestazione: non è sufficiente riconoscere la “divinità” nella/della Natura, affinché si possa parlare di culto. Di fatto, l’animismo è prima un modo di concepire il cosmo come una ierofania, al quale seguì solo in un secondo momento l’instaurarsi di rituali – quello che era in oggetto nell’articolo era appunto questo, cioè che suddetti rituali potrebbero essersi instaurati prima di tutto nei confronti dei propri morti, e poi estesi alla natura, passando da un primigenio culto degli Antenati a un successivo culto (comunque animista) di elementi naturali. Anche per questo, oggi, si cerca di parlare di “animatismo ancestrale” e non di “animismo ancestrale”, in quanto per come il termine animismo è entrato in uso fin da Taylor esso implica una forma di culto o religiosità che sicuramente deve essere successiva, avendo bisogno di un maggior supporto da parte della cultura che, come hai detto giustamente, è la gemmazione o il risultato di altri processi a carattere interiore, psicologico, comunitario, tecnologico, etc.
Per sottolineare quanto sia controverso il dibattito su quale forma di religiosità ci fosse all’origine della storia umana, ti lasciamo anche il titolo di un libro dove si propone l’ateismo come visione ancestrale del mondo non solo nella penisola greca e italica, ma anche nelle società ancestrali: Battling The Gods di Tim Whitmarsh.
L’unica cosa che veramente non comprendiamo, e che ci sentiamo di contestare fortemente, è l’abuso che fai del termine “primitivo” o “primitivismo”, che ci sembrano davvero fuori luogo parlando di antropologia nell’anno corrente. Sottointendono un universo di concetti che è ormai obsoleto e che alimenta un mito – cioè come Taylor e i suoi contemporanei si ponevano nei confronti delle società tribali o aborigene native dei vari luoghi in cui gli Imperi Europei si sono espansi, e quali riguardi avesero di queste culture (nullo, per altro). Su questo aspetto, ci prendiamo la libertà di invitarti ad un aggiornamento dei termini.
Vincenzo CONTE
Nexus Arcanum, io non devo aggiornare nessun termine. Il mio compito, in qualità di studioso dei miti, non è quello di indagare il pensiero degli archeologi, ma devo entrare nel pensiero del primitivo, quello che dalla sua condizione animale, si trovava gettato in un mondo sconosciuto, a convivere col pensiero, croce e delizia della sua esistenza. Nella comprensione dei miti è scritta la storia dell’umanità prima che i popoli scoprissero la scrittura. E nessun archeologo può dirmi quale fosse il pensiero del primitivo se non quello espresso nei simboli e nei miti, che cerco di decifrare. Notevole aiuto l’ho avuto dagli studi di Freud, C.G. Jung e dallo storico delle religioni James George Frazer, col suo “Il Ramo d’Oro. Ciò stante non può interessarmi Taylor che si è occupato di indagare la cultura e la civiltà etnografica di alcuni popoli attraverso le credenze, l’arte, la morale e il costume.
Nexus Arcanum
Ammazza, che bella tripletta di autori datati XD (saremo noi giovinastri, che non capiamo gnente?)
In ogni caso, tutti devono aggiornarsi per restare attuali. Ed è abbastanza chiaro, da quello che scrivi, che il tuo modo di relazionarti all’argomento oggetto dell’articolo attuale non è (…e forse non lo è neanche il modo in cui ti relazioni al tuo campo di studi o interesse personale).
In ogni caso, ci chiediamo perché, se Taylor non è nei tuoi interessi, ti sei sentito in dovere di sbrodolare un commento non pertinente su un argomento che non ti interessa direttamente, anche perché eventualmente “contesti” Taylor portando il pensiero di Freud? Quando l’antropologia culturale e gli studi psicoanalitici e neurologici erano due mondi distanti (e lo sono ancora oggi, per lo più) che partivano da presupposti talvolta agli antipodi? Suona un po’ come “ehy, che ore sono?” “quattro cipolle!”.
Mah. I grandi misteri del web. 🙂
Grazie di averci intrattenuto comunque.